Economia - pubblicata il 27 Maggio 2014
Abbiamo il piacere di intervistare il direttore del corso di laurea Magistrale in design della moda Mario Lupano. Un’interessante conversazione che interpreta i valori dell’economia offrendo
alle imprese importanti spunti per le loro produzioni.
Intervista a cura di Silvia Trevisan
Redazione di ” Economia della Marca” e trevisobellunosystem.com
Ci può raccontare qualcosa di lei, della sua vita professionale?
Sono un architetto e uno storico dell’architettura. Ho lavorato nei corsi di storia dell’architettura al Dams dell’Università di Bologna, vi ho diretto la Scuola di specializzazione in storia
dell’arte, e ho lavorato per l’articolazione dedicata alla moda nella sede di Rimini dell’Ateneo bolognese, in particolare dirigendo il corso di laurea magistrale.
Si tratta di un percorso accademico che ritengo appropriato al mio attuale occuparmi di moda. Fin dagli anni ottanta ho lavorato in riviste che tenevano in considerazione le relazioni fra arti,
design e moda. Mi sono sempre interessato di formati didattici, della formazione dei designer e degli artisti. Qui all’Università IUAV di Venezia sono stato chiamato a occuparmi di didattica del
design della moda. Rispetto alla mia formazione di architetto, si tratta di un passaggio coerente: considero l’abito l’architettura più prossima al corpo.
Ci può approfondire il rapporto tra moda ed architettura?
Ci sono molte cose in comune tra il progetto architettonico e il progetto della moda. L’abito ha delle regole preziosissime, si può considerare una sorta di struttura che funziona in
modo rovesciato rispetto all’architettura: il progetto architettonico necessita di fondamenta strutturali, mentre l’abito si poggia direttamente sul corpo, ma in entrambi i casi il corpo è
centrale, e questo mi interessa moltissimo. In comune, ancora, ci sono la modellistica e la valutazione dei materiali.
Qualcosa che nella moda non è molto esplicito è la progettazione degli scenari. Realizzare una collezione implicare sempre progettare anche uno scenario in cui si muove il vestito. La moda si
posiziona in ambito accademico come un discorso culturale estremamente complesso, la sfida è come insegnare una disciplina che deve essere costantemente riformulata, per rispondere appunto al
rapido mutare che appartiene al pensiero interno alla moda. In ambito universitario è importante fare questa riflessione, oltre che avere l’obiettivo di far crescere il posizionamento professionale
dei laureati. Non formiamo dei pensatori, ma dei “facitori”, dei makers a livello avanzato. È una missione molto importante: Richiede una complicità da parte dell’industria della moda, che è molto
potente ma che simultaneamente dovrebbe iniziare a ripensarsi: non più solo macchina “brutale” della produzione, ma anche laboratorio di riflessioni e di pensiero.
E per quanto riguarda la moda e la globalizzazione?
Oggi la concorrenza è altissima, molti possono facilmente surclassarci. La domanda che dobbiamo porci è quale sia il destino dell’Europa, e di conseguenza cercare una collocazione in
uno scenario possibile, perché l’Europa dovrà costruire il proprio ruolo all’interno dei processi di globalizzazione, che per esempio mettono in discussione il nostro posizionamento nell’industria
della confezione: le aziende sono in crisi, soprattutto se continuano a pensarsi come ai tempi del boom economico.
Il nostro ruolo sicuramente sarà sviluppare un modo molto sofisticato per confrontarci produttivamente con lo straordinario patrimonio pregresso che ci caratterizza. Questi corsi di laurea che lo
IUAV dedica alla moda si posizionano in un contesto interessante: sono gli ultimi nati in Italia, ma a livello universitario pubblico. Siamo ben posizionati perché la riflessione e il saper pensare
sono costantemente associati al saper fare e ci poniamo il problema dello scambio fra ciò che è fuori e ciò che è dentro la nostra università: includere ciò che è “esterno” per poi restituirlo al
mondo del lavoro ha direttamente a che fare con la formazione dei nostri studenti.
Cos’è per lei la moda?
È un sistema economico, una modalità con la quale la cultura viene elaborata. È un linguaggio, ed è una costruzione che ha a che fare con il corpo.
Qual è lo stile nella moda che predilige?
Sono molto interessato alla moda o meglio all’espressione della moda interrogativa, quella che ridiscute sempre le regole, le stagioni, l’identità maschile e quella femminile. La moda si rapporta
con la sostenibilità, con la tradizione, si fa carico di porre interrogativi su problemi sociali e problemi di genere. Sono interessato alla moda di nicchia, di ricerca, che è quella che
maggiormente può individuare modalità alternative di fare moda.
Che rapporto ha la moda con la tecnologia?
È un rapporto strano, perché se è pur chiaro che le innovazioni tecnologiche sono importanti, molto spesso il connubio avviene per una sorta di imperativo, secondo il quale è
prioritario avanzare a tutti i costi. Indubbiamente la moda ha dimostrato di sapersi astutamente appropriare di tecnologie messe a punto da altri settori, da altre discipline. Ma il rapporto con
l’innovazione è sicuramente variabile, perché non necessariamente definito dalla tecnologia di ultima generazione: si possono ottenere innovazioni (spesso estremamente interessanti) attraverso la
riproposizione di tecnologie considerate obsolete. Innovare per esempio può significare utilizzare vecchie macchine che sono espressione di una produzione desueta, non per fare nostalgici salti nel
passato, ma per recuperare effetti, sensazioni, qualità del prodotto di moda. La moda non è unidirezionale: l’innovazione può essere il prodotto di un più raffinato e interrogativo rapporto con la
storia, e con la circolarità del tempo. Le industrie – e parlo anche delle aziende più avanzate – saranno realmente sofisticate quando nel loro modo di produrre sapranno tenere conto delle
tecnologie basiche dell’artigianato. Le stampanti 3D sono sicuramente un aiuto, però è altrettanto importante favorire rapporti virtuosi fra tecnologia a bassa e ad alta definizione: credo che
questa compresenza sia uno dei fattori determinanti per creare innovazione.
Chi sono gli innovatori del linguaggio della moda?
Gli innovatori sono coloro i quali sanno gestire in modo virtuoso i tanti elementi contrastanti che definiscono la moda: i rapporti complessi con il tempo, con l’immaginario, con il sé.
Un vestito creato attraverso l’impiego di una tecnologia all’avanguardia non è necessariamente innovativo: per generare emozioni, per interagire con il pubblico, occorre rapportarsi a tempi
diversi, innescare sensazioni collegate alla memoria. La moda è come il cinema, disegna un immaginario. Possono esserci immaginari tecnologici, il futuro deve essere declinato attraverso la
tecnologia ad altissima definizione. Poi, soprattutto, la moda è la disciplina che più sa aggredire i temi della seduzione e delle identità di genere. Gli innovatori del linguaggio della moda non
devono negare l’identità di genere, ma saper portare (e indagare) questi aspetti all’interno della loro proposta, ridiscutendo le loro precedenti convinzioni.
Qual è il futuro della moda?
La moda diventerà sempre meno eurocentrica, anche perché il consumo si è spostato altrove. La moda è sostenuta dai consumatori; il nostro compito è riposizionarci, reinventandoci modalità per
rivedere il rapporto con la storia e la tradizione. La moda italiana dovrà essere meno passiva rispetto agli ideatori posizionati all’estero. Noi pensiamo che qualificare al massimo una scuola dove
si insegna a progettare, in un paese che produce moda, sia molto importante per agire anche sulla qualificazione delle aziende che producono benissimo. L’Italia è il paese dove si producono oggetti
di lusso o di nicchia: dobbiamo porre attenzione a non divenire degli esecutori di idee messe a punto altrove. Le aziende che sono brave ad eseguire dovrebbero essere anche capaci di inventare. Noi
cerchiamo di formare designer di alto livello, sia da un punto di vista ideativo, sia da un punto di vista tecnico e produttivo.
In un momento di saturazione dei mercati che ruolo ha la moda?
Trovo difficile immaginare un’effettiva saturazione dei mercati. Ci può essere saturazione, forse, in certe situazioni, quando ci si limita a proporre sempre le stesse cose. Probabilmente la
risposta è che evitare la saturazione significa attrezzarsi in modo diverso, mettendosi in discussione e affrontando questioni come, per esempio, la sostenibilità dei tempi della produzione. La
moda nell’ambito dell’università è questo: dobbiamo aggredire questi temi, dobbiamo porre degli interrogativi. Non avremo più gli scenari di una volta a cui fare riferimento, i valori cambiano, si
stanno modificando moltissimo, e l’università ha il compito di esprimere in modo autonomo un punto di vista, non solo per rispondere agli scenari che gli esperti di marketing impongono, spesso
parlando di cose già accadute che portano ad appiattire le proposte. Insomma, bisogna dare attenzione direttamente al pubblico. La moda dovrebbe – e sa farlo – arrivare a captare pubblici
specifici, in modo diretto, senza la mediazione di altri sensori. Sono affascinato dai marchi di nicchia perché individuano un pubblico di amatori. È importante capire i meccanismi di relazione tra
ideatore e pubblico. La moda è uno strumento per l’indagine identitaria, crea situazioni di comunità transitorie, si manifestano in modo inatteso, che poi si moltiplicano .
Un’azienda che produce capi d’abbigliamento come deve interpretare il caldo e il freddo delle stagioni?
Il caldo e il freddo sono convenzioni della moda sono già messe in discussione dalle precollezioni. I marchi della produzione continua, come Zara e H&M, non producono più in base
alle stagioni ma sempre, a ciclo continuo. Il caldo e il freddo sono concetti molto deboli ora: produciamo per il Brasile e per la Cina contemporaneamente. Non ci sono più queste rigidità.
Piuttosto, può accadere che chi progetta, decida di realizzare qualcosa di caldo utilizzando l’immaginario del freddo. Ma, appunto, senza alcun vincolo rispetto a un presunto status quo delle
condizioni meteorologiche.
Quale obiettivo si è proposto nella direzione del corso di laurea?
Mi occupo della magistrale ma non è semplice, perché dopo una buona formazione triennale i nostri studenti laureati sono subito assorbiti dal mercato del lavoro. Noi invece vorremmo che si
rafforzassero ancora all’interno dell’università, attraverso la magistrale.
Abbiamo delle difficoltà con gli studenti che non hanno frequentato la nostra triennale. Arrivano da percorsi diversi, con livelli di formazione molto diversi. Ciò è interessante, ma è anche un
ostacolo perché provenendo da scuole più legate alla comunicazione si trovano in un ambiente accademico che affronta direttamente il fare, il progettare. Gli esiti comunque sono più che
soddisfacenti.
Abbiamo bisogno di sedi per il dottorato di ricerca. In più, gli inquadramenti ministeriali prevedono dottorati con le imprese, che si devono svolgere in ambito aziendale. Per le aziende si tratta
di un’occasione per attrezzarsi come sedi di ricerca, per l’università diventa un modo concreto per trovare altre forme di complicità con le imprese. Coltiviamo già moltissimi rapporti con le
aziende, che si manifestano anche attraverso azioni didattiche molto coinvolgenti per gli studenti. Le imprese guardano all’università come occasione di crescita, per costruire il proprio
heritage, confrontarsi con il proprio archivio e la propria storia, con l’identità del marchio: l’università può dare un contributo straordinario nel decidere cosa selezionare del passato
di un’azienda per avvalorare le scelte e le traiettorie future.
Uno degli obiettivi che mi sono posto alla direzione del corso di laurea è portare a livelli eccellenti la proposta didattica dei 5 anni. Vorremmo formare anche dei docenti, qualcuno cha sa
progettare e pensare, e che ha a cuore l’istituzione universitaria. Nella nostra scuola vengono a insegnare molti professionisti, ed è per noi una costante operazione di scouting. Questi designer
sono contenti di dare e di ricevere, ma ci servono anche figure che appartengano in qualche modo all’università. C’è bisogno di inserire questi professionisti dentro l’università, anche per dare
più profondità e spessore alla dimensione della ricerca accademica: si tratta di ingegneria istituzionale, anche molto complessa, e sicuramente oggi le restrizioni universitarie in tempi di
spending review non ci sono d’aiuto .
Come definisce l’abilità del saper fare?
Siamo molto chiari: uno che vuole diventare designer deve saper fare, deve saper progettare. Deve coltivare il rispetto per l’abilità manuale e deve saper rapportarsi con chi dovrà
realizzare il suo progetto. Deve imparare a confezionare il prototipo. Ai nostri ragazzi chiediamo di imparare moltissimo: disegnare, cucire, realizzare cartamodelli, progettare tessuti, capsule
collection e immaginari. E abbiamo molti studenti maschi che si iscrivono. Alle selezioni della triennale se ne presentano 350 e ne scegliamo 60, anche attraverso un colloquio attitudinale. I
maschi sono molto motivati e in molti provengono dal liceo classico. È molto interessante il fatto che gli studenti dei licei siamo spesso i più motivati, probabilmente perché sono meno definiti e
hanno coltivato una cultura generale. Quando arrivano il saper fare non appartiene alla loro formazione, ma qui all’università se ne appropriano con l’esercizio dell’intelligenza. Oggi l’abilità
artigianale non si trasmette da padre in figlio, o nelle scuole professionali. Oggi il saper fare è una decisione intellettuale. Chi non ha delle abilità, aggredisce i problemi con il ragionamento.
Quanto incide il territorio trevigiano nella realtà dell’università?
Il territorio trevigiano incide moltissimo, perché ha creduto molto in noi; ci sono moltissime aziende, che sono diventate un punto di riferimento per noi: per ciò è molto prezioso.
Vorrei anche ricordare l’esperienza degli assegni di ricerca attivati a partire da quelli del Fondo Sociale Europeo (FSE): prevedono che giovani laureati svolgano ricerca con la complicità di
un’azienda, stando in azienda. Noi abbiamo ottenuto assegni di ricerca in aziende di maglieria e di confezione che si sono rese disponibili. E la cosa è a costo zero per l’impresa. Si tratta di
un’occasione eccellente per creare occasioni di lavoro, e per cementare il rapporto con le aziende.
Come interpreta la collaborazione con le aziende? Che percorso avete realizzato con le aziende in questi anni?
La collaborazione con le aziende è ineludibile, a volte è molto estemporanea e poco istituzionalizzata: le aziende arrivano anche attraverso i nostri ragazzi, che le hanno cercate
proprio perché magari hanno bisogno di una particolare lavorazione. Gli studenti fanno anche ricerche per individuare le aziende nelle quali svolgere lo stage curricolare del secondo anno;
molte di queste sono straniere e ciò contribuisce a creare un network di relazioni molto ampio. I nostri studenti si presentano con bei portfolio, Silvia Zotti lavora moltissimo su questo aspetto.
Quest’anno i ragazzi sono stati ad Amsterdam, Copenaghen, Parigi, New York. Siamo molto orgogliosi di questa particolare eccellenza che contraddistingue in nostri corsi di laurea allo IUAV.